12 febbraio 2021
di Marco Romanelli
Perché oggigiorno gli architetti vestono di nero (salvo qualche rara eccezione che sceglie pur sempre la tinta unica)? Abiti sartoriali, geometrici o quasi futuristici, assolutamente no logo, dal sapore essenziale e sofisticato. Che una certa cromatofobia sia funzionale a un’immagine misteriosa da guru? Disse una volta Peter Haimerl “Architects wear black … because they want to have the authority of black capes, the liberty of apes, and the visibility of nocturnal capers”. Che sia così? Ma, soprattutto, è sempre stato così?
Cominciamo da oggi? Dolcevita nero, pantaloni un po’ elasticizzati sempre neri, scarpe stringate anche in estate ma rigorosamente senza calzini. Il nero dà profondità. Questa è la divisa del “monaco architetto”, naturalmente quando vuole conservare una certa credibilità professionale (è il ruolo della divisa). A meno che non si scelga di trasformarsi nel manifesto di se stessi: il tutto bianco di Ross Lovegrove, a fare da pendant alla barba e ai capelli candidi, il tutto rosa di Karim Rashid a spaventare i produttori brianzoli ancora leggermente omofobi, il borchiato pelle nera aggressivo, anche perché condito di un buon grado di turpiloquio, di Fabio Novembre. In fondo tutto ciò è fenomeno recente e non autoctono: mediato dal mondo dell’arte.
Ma come è potuto succedere? Torniamo solo per un momento indietro, di una quarantina di anni ed entriamo nello studio dei BBPR: camici bianchi con elastici ai polsi per non sporcarsi, a proteggere camicie bianche con cravattino scuro e sotto spuntano pantaloni principe di Galles perfettamente stirati con la piega e scarpe inglesi (scusate, dimenticavo le bretelle). Una tendenza che, eliminati i camici, va avanti per molti anni, passando dalle più inappuntabili grisaglie, lane secche leggermente gessate, allo spezzato con pantaloni di vigogna e giacca a occhio di pernice o pied-de-poule, taschino pieno di matite, biro e pennarelli colorati, pronti alla bisogna di chi ancora tira righe e disegna a mano libera. È questa la generazione dei Magistretti (con la concessione del calzino rosso), degli Albini, dei Viganò. Uomini che assomigliano ad attori americani, aspettando l’esplosione delle vacanze con pantaloni corti color cachi e cappellacci da lupo di mare, la libertà assoluta della vela, delle isole del Sud e intanto la testa macina progetti meravigliosi di ville sotto il sole ustionante della Sardegna.
Il modello successivo viene ibridato da codici inglesi. L’esempio è senz’altro Aldo Rossi, l’architetto non è più né un designer, né un fine pianificatore. Con un libro rigorosamente in mano, negli anni ‘80 è un intellettuale (che sovente fa una pessima architettura). Tutti i disegni erano su carta da spolvero giallina: strane torrette, strani frontoni.
Di fianco all’architetto anni ‘80 compaiono nuove figure: il gallerista, rapidissimo a sfilare qualsiasi disegnetto il suddetto architetto produca e, ancora a lato, il critico, anche lui tutto di nero vestito, pronto a riempire di parole ogni afasia concettuale.
E oggi? Oggi l’architetto è uomo d’affari, astuto manovratore, uomo politico. Oggi l’architetto mangia la gomma da masticare e dichiara che per fare architettura ha assolutamente bisogno di un biologo, di un oceanografo, di un esperto di licheni. Saranno forse i nostri figli a tornare all’inizio della storia? Vorrei immaginarli in cantiere con solide pedule, lasciando le pinne agli oceanografi.